GLI ARTICOLI SU MONTEPIANO
Anno 1 - Numero 7

La caccia col metodo del "Palmon"
di Loredana Possentini
Il “ Centro Studi della Valli del Termina” ha come obiettivo conoscere, far conoscere e valorizzare il territorio che, oltre gli stretti limiti del bacino idrografico del Termina comprende anche tutto il comprensorio del Monte Fuso (Pier Luigi Sassi, Il Centro Studi delle valli del Termina, in "MontePiano" n.4, giugno 2008, ed. Studio Nobili).
Il numero Due di Appunti di Valle (2 indic. bibliografica), pubblicato nel 2005, presenta l’ampia e dettagliata testimonianza del socio e collaboratore Albertino Albertini che ricostruisce la tecnica della caccia agli uccelli migratori col metodo detto del palmôn.
Una caccia praticata per secoli fino a qualche decennio fa perché, pur essendo proibita, dava la possibilità alla povera gente del nostro Appennino: ad alcuni di ottenere l’unica riserva di carne di cui disporre durante l’inverno, ad altri di procurarsi qualche soldo vendendo il bottino al pularol (l’ambulante che nei paesi acquistava pollame e uova da rivendere in città).
Era un’attività rigorosamente artigianale che esigeva grande impegno nel preparare l’attrezzatura, fatta con materiali poveri, e che implicava molti disagi, soprattutto per le basse temperature da sopportare, infatti il periodo di caccia andava da ottobre a marzo.
Secondo l’usanza, individuato, ben in anticipo, un luogo alle falde dei monti più alti, il pulmunaj lo prenotava appendendo un mazzo di rami ricco di foglie ad un albero, in modo che fosse ben visibile.
Albertino Albertini, Ricostruzione della tecnica della caccia agli uccelli migratori col metodo detto del “Palmôn” in Appunti di Valle n° 2, maggio 2005, ed. Centro Studi
Il palmôn era pronto.
Nascosto in un capanno, parzialmente interrato e mimetizzato, al limite della radura, il cacciatore attendeva con fiducia l’arrivo degli uccelli migratori.
Richiamati dal canto dei loro simili in gabbia, li raggiungevano e, cercando di posarsi sul piantone, toccavano con le ali le panie che, incollandosi alle piume, ne impedivano il volo.
Caduti a terra il pulmunaj raccoglieva le prede,non più di tre - quattro ogni stormo e sostituiva velocemente le panie staccate.
Una mattinata molto fortunata poteva fruttare 30-40 esemplari, ma quante senza sentire un canto !
Ovviamente non cacciava quando c’era pioggia o vento, nemici delle panie, e poi l’insidia del guardiacaccia, dei falchi e degli scutôn, le prede che si erano liberate senza poter riprendere il volo e che distraevano i richiami.
Insomma non ci si arricchiva.
L’attività del pulmunaj esigeva abilità e competenze che tramandava ad un allievo.
Come procurarsi ad esempio i richiami (càntareli da palmôn)? Solo qualche cacciatore molto abile riusciva a conservare alcuni uccelli dell’anno precedente, tenendoli in una cantina fresca e semibuia con tanta acqua e cibo adeguato. Una mistura di farina di granoturco, bacche di ginepro (cücli) o di biancospino (cagapuj). Con questi esemplari cacciava per primo e rivendeva gli uccelli ai colleghi. In alternativa ci si poteva recare nei paesi di collina più alti e più freschi dove i richiami superavano facilmente l’estate.
L’allievo doveva saper preparare anche il mangime speciale che si dava ai richiami nei giorni di caccia: un pastone di pere (lambérdi), cotte al forno e biascicate (biàs).
Essendo sorte nuove esigenze ambientali e venute meno le motivazioni alimentari, questa realtà non esiste più; sopravvive però attraverso modi di dire e proverbi. Il più noto è Réstèr inviscié, ossia rimanere coinvolto in un affare poco gradito. Altri alludono all’aspetto delle persone Mèghèr cmé na cantarèla da palmôn, Elt cmé na stanga da palmôn o Béla cmé na stanga da palmôn ; al tempo L’è na maténa da palmôn. Di una persona che cerca di fare affari in ore o in situazioni poco canoniche si dice L’è un palmunaj ; di chi è diffidente L’è un scuton.
Intanto nella seconda metà d’agosto procedeva alla raccolta delle bacche di vischio che, macerate in un sacchetto di tela sotto uno strato di letame, si trasformavano in un pastone da ripulire con l’acqua fino ad ottenere un impasto di colore olivastro scuro, privo di bucce e semi.
Al momento opportuno,dopo averlo fatto bollire con olio minerale o di merluzzo per diluirlo, il cacciatore iniziava a “invischiare” una delle due punte dei numerosi rami freschi di salice, lunghi circa cm 50, (panie) che collocava nel painàs per il trasporto (fig.1).
Preparava anche alcuni pali (stanghe) su ciascuno dei quali avrebbe inserito un piccolo cilindro di legno di 20 cm (rocchetto), provvisto di tre fori.
Con questi attrezzi e le gabbie, intrecciate con rami di salice, dove erano rinchiusi i richiami (tordi - sichi e cesene - clumbéni), il cacciatore raggiungeva il terreno individuato in precedenza.
A fine ottobre lo aveva ripulito dalla vegetazione, in modo da creare una radura di 10 -15 metri di raggio, protetta da una siepe di rami e arbusti e al centro vi aveva sistemato tre - quattro piante senza radici e con pochi rami (piantôn) ai quali avrebbe appeso le gabbie dei richiami.

A ciascun piantôn ora legava una stanga munita di rocchetto, armato di tre rami di quercia (batèchi da rôchètt), provvisti di qualche ramoscello con funzione mimetizzante, e di alcune incisioni (fig. 2), nelle quali collocare le panie lunghe circa cm 40 (fig. 3).