GLI ARTICOLI SU MONTEPIANO
Anno 6° - Numero 59
LA CATTURA, LA TRATTATIVA E LO SCAMBIO
Il l7 giugno 1944 i partigiani del Distaccamento Don Pasquino catturano a Traversetolo un importante ufficiale tedesco. Protagonisti dell'episodio sono William, il comandante del Distaccamento, e tre suoi uomini
di Mario Rinaldi
Dopo un'ora passammo I'Enza e il mattino dopo eravamo nella boscaglia di Staffela. Vi rimanemmo tutto il giorno e appena notte ci muovemmo di nuovo.
Arrivammo a Barco, un piccolo gruppo di case vicino a Roncaglio. Se la gente ci vedeva per noi era utile. La voce che il Don Pasquino era tornato nel reggiano ci faceva molto comodo. Il nostro obiettivo era la caserma dei carabinieri di Traversetolo. Dissi a Lupo di trovare una macchina, "a ogni costo" gli dissi, e di arrivare con due compagni al Mulino di Bazzano. La notte di quello stesso giorno, tra le dieci e le undici, li avremmo raggiunti con tutto il Distaccamento. A causa di alcuni imprevisti, arrivammo all'appuntamento molto dopo.
Era successo che al momento della partenza c'era stato un allarme. Dicevano che in zona c'erano i tedeschi. Lupo, che ci aspettava, era preoccupato. Lui la sua parte l'aveva fatta: aveva trovato una Balilla che era un'ottima vettura. Senza perdere tempo ordinai agli uomini d'incamminarci e neanche un'ora dopo tutto il don Pasquino era tra le case di Bazzano.
Nelle stalle c'erano le luci accese, cominciava a fare giorno e solo poco alla volta i contadini si sarebbero accorti di noi. Io sapevo come sarebbe stato l'impatto. E qualcuno cominciò ad avvicinarsi. A me interessava sentir parlare la gente per conoscere la situazione. Fu così che venni a sapere di un magazzino, dicevano, pieno di lardo. Mi feci indicare dov'era. Era invece una cosa modesta. Chi me lo aveva segnalato mi aveva anche detto che in paese c'era gente molto povera e io subito pensai di andare a prendere quel lardo e di distribuirlo, facendolo però pagare il giusto prezzo che non era quello del mercato nero.
Il ricavato fu tutto del proprietario (...) e la gente era portata a pensare che era arrivato un giustiziere che prendeva la roba a chi l'aveva per poi darla a chi non l'aveva. Una specie di Robin Hood, insomma.
Per quella gente, se non fosse stato il lardo a dover essere sequestrato sarebbe stato il materasso o qualcos'altro. Questo modo di veder le cose, sbagliato in sé e anche frutto di invidie e di piccole malignità, era però utile perché mi indicava la tendenza della gente a considerarci amici e in quell'opinione c'era il consenso.
Nel pomeriggio chiamai Franz, Lupo e Aramis. Dovevo informarli del piano che avevo pensato. Io e loro in quello stesso pomeriggio saremmo scesi a Traversetolo. Siccome eravamo in possesso di tre divise naziste, quelle requisite a Ciano qualche settimana prima, dissi ai tre compagni che loro avrebbero dovuto indossarle. Franz, che parlava molto bene il tedesco e che era biondo, avrebbe indossato quella da ufficiale. Io, in borghese dovevo figurare un prigioniero ammanettato. Così vestiti ci saremmo presentati davanti alla caserma dei carabinieri e sarebbe stato poi facile fare il colpo. Tutti e tre accettarono e del loro coraggio ne ero sicuro.
Decidemmo di partire alle quattro, nel pieno del pomeriggio, e così facemmo. Mezz'ora più tardi eravamo a Traversetolo nella piazza del mercato che era deserta. Voltammo a sinistra e imboccammo un viale in salita dove c'era la scuola e più avanti di cinquanta metri, sulla destra, c'era la caserma dei carabinieri.
Proprio nel momento in cui giravamo verso la caserma un ufficiale tedesco, elegante nella sua uniforme, scendeva dalle scale della scuola.
Nella strada era parcheggiata la sua macchina. Inaspettata fu la sorpresa. Pensai subito che l'ufficiale non poteva essere solo. In giro, pensai, ci saranno altri tedeschi. Lo stesso pensarono i miei compagni. Era una circostanza che non lasciava tempo alla riflessione.
Quando certe cose succedono le decisioni non possono essere che immediate e se possibile precise. Di mezzo c'era lo nostra vita. Perciò d'istinto dissi a Franz di saltare addosso al tedesco e di catturarlo. Lufficiale ci aveva visti e forse aveva intuito che non eravamo tedeschi. Aveva sentito la mia voce. Allungò il passo verso la macchina, aprì la portiera e si allungò per prendele il mitra ma Franz con alcuni dei suoi balzi lo aveva raggiunto e gli urlava in tedesco di alzare le mani. L'ufficiale non intendeva ubbidire e muovendo la mano sulla cintura cercava di prendere la pistola. Ma ormai era tardi. La pistola di Franz lo premeva sulla schiena e lui a quel punto alzò le mani. Difficilmente un altro sarebbe stato così calmo e così sicuro come Franz.
Nel frattempo anch'io e gli altri due compagni eravamo scesi dalla macchina. Io presi le manette che dovevano farmi apparire un prigioniero e le
gettati a Aramis.
L'uficiale era ormai contro il muro e Aramis in pochi secondi lo ammanettò. A quel punto ci guardammo in faccia.
Non eravamo più certi di quello che dovevamo fare. L'imprevisto aveva scardinato il nostro piano e ci poneva il dilemma se ritirarci o se proseguire
nell'azione verso la caserma. Scelsi di proseguire e strisciando lungo il muro arrivammo alla caserma. Le finestre del secondo piano erano aperte e senza esitare sparai col mitra alla loro altezza. Subito dopo gridai al maresciallo di arrendersi. "La caserma è circondata" urlavo.
Il maresciallo si affacciò ma non disse niente. Franz, che per temperamento non riusciva a attendere risposte, si scagliò contro il portone, con una spallata lo aprì e con lo sten spianato entrò urlando. Io e Aramis lo seguivamo. Dentro i due carabinieri stavano già contro il muro con le mani alzate e il maresciallo che scendeva le scale disse: "Che sistemi sono quesri, non lasciate alla gente nemmeno il tempo di arrendersi". Prendemmo tutte le armi, il bottino era discreto, e tornammo all'incrocio dove c'era Lupo con l'ufficiale. Salimmo tutti e quattro sulla Balilla e lungo il viale alcuni abitanti ci batterono le mani. Dal finestrino gridai loro di andare a casa, "è imprudente essere testimoni" dissi. Arrivammo a Bazzano senza incontrare nessuno. Ad attenderci c'era tutto il Don Pasquino che ci accolse con un'esplosione di gioia.
Tutti pensavano alla caserma dei carabinieri e nessuno immaginava che in macchina avevamo un ufficiale tedesco. La meraviglia dei compagni fu enorme e tutti volevano sapere. Sulla Balilla, in disparte, Lupo stava seduto vicino all'ufficiale "vero" e ogni tanto qualcuno si fermava a guardare, ma a distanza. La voce che avevamo catturato un tedesco si era ormai sparsa e la gente era curiosa. Però per chi guardava le cose non risultavano chiare. L'ufficiale vero, infatti, non si vedeva e i curiosi non capivano come mai un ufficiale prigioniero poresse essere così allegro e così amico dei partigiani com'era Franz ancora vestito da tedesco.
Quando la situazione divenne calma, portammo l'ufficiale in una casa, al sicuro. Ormai era il tramonto e prima di chiudere la giornata volli interrogarlo. Con me venne Franz per fare da interprete.
Appena l'ufficiale mi vide scattò in piedi. Non volle saperne, poi, di stare seduto. Disse di essere capitano e di chiamarsi Buck. Nient'altro.
Era un medico addetto al comando di Kesserling e a Tiaversetolo era venuto apposta da Soragna per visitare un ammalato. Gli chiesi delle cose ma lui non rispose. Allora, con indifferenza, dissi che era l'ora di andare a dormire e lui di nuovo scattò sull'attenti. Poi uscimmo ma io non pensavo
proprio di andare a letto.
Ero sicuro che quell'ufficiale era un pezzo grosso e pensavo a cosa avrei potuto fare il giorno dopo. E ero anche sicuro che i tedeschi si sarebbero sguinzagliati per venirlo a cercare. Avrebbero agito con la forza e io tra le mani avevo la classica patata bollente.
Un gran colpo era stata la sua cattura ma ora l'averlo prigioniero era diventata una grande responsabilità. Erano i rapporri con la popolazione che mi preoccupavano e in caso di rappresaglia tutta la colpa sarebbe stata mia. E mentre pensavo a queste cose mi balenò l'idea di uno scambio.
Chiamai Franz e tornai dall'ufficiale che, quando entrammo, scatto di nuovo sull'attenti. Gli dissi del mio progetto e che lui stesso avrebbe dovuto scrivere una lettera al suo Comando. Mi ascoltò senza batter ciglio e poi disse "il mio onore di soldato non mi permette di accettale proposte disonorevoli, specialmente se fatte da dei banditi. Meglio morire che cadere così in basso. Io sono un soldato che saprà morire con onore".
"Prendo atto della sua decisione - gli dissi - e se lei ci tiene tanto a morire con dignità io l'aiuterò nel senso che la farò fucilare, così il suo orgoglio sarà salvo". Lui rimase impassibile.
"Lei dice che siamo dei banditi - continuai - e finge di non sapere che siamo dei patrioti. Quello che noi vogliamo è di poter vivere liberi in un paese libero, senza gente come voi. Noi conosciamo il trattamento bestiale che riservate ai nostri compagni e conosciamo i crimini di cui ogni giorno vi macchiate. A lei queste cose fanno orgoglio, a noi fanno orrore".
L'ufficiale ascoltava impassibile e io avevo l'impressione che il suo contegno fosse sprezzante non tanto perché di noi pensava quello che aveva appena detto quanto perché lui si sentiva parte di una casta da secoli abituata a comandare. E per dipiù l'essere prigioniero di pezzenti che puzzavano, malvestiti, e l'essere chiuso in una stalla, era per lui il massimo del degrado. La sua espressione era persino beffarda.
"Capitano, da noi si dice che la notte porta consiglio - gli dissi prima di andarmene - lei rifletta che è anche un medico". Chiusi così il nostro secondo incontro. (...)
Ero in crisi e non sapevo a chi rivolgermi. Pensai a Eros. Chiamai Lupo e lo mandai a Ramiseto. "Digli che ho bisogno di un suo parere e fatti dare un elenco dei nostri compagni prigionieri a Reggio". Poi uscii in mezzo alle case. Avevo bisogno di pensare all'aria aperta. Non c'era nessuno in giro. Tutti nelle lolo case, pensavo, e noi una casa non l'abbiamo. E chiesi a un conradino se potevo sedermi in casa sua. Mi ero appena seduto che venne un partigiano. "C'è un prete che vuole parlarti". Mi affacciai sull'uscio. "Sono don Pasini di Traversetolo". Lo feci entrare.
"È lei che tiene prigioniero l'ufficiale tedesco? Sono venuto a informarla che i tedeschi hanno arrestato il maresciallo e i carabinieri. Li hanno portati a Parma. Ora minacciano una rappresaglia per tutto il paese. Lei deve liberare l'ufficiale". "Non ci penso neanche, reverendo".
Il prete insisteva e io ero seccato. "Reverendo, io vorrei vedere le cose come le vede lei, ma siamo in guerra e io mi sento in guerra. Ognuno faccia la sua parte e dica ai tedeschi che se a loro preme la vita del loro camerata a me preme quella degli italiani, e che si sappiano regolare, gli dica'.
Intanto che parlavo riaffiorava l'idea dello scambio e ne accennai al prete.
"Magari" disse lui. "Dica anche che se toccano un civile io impicco il prigioniero". (...) "Farò il possibile" disse infine. E, il nostro colloquio chiuse la giornata. Era il 17 giugno. Dopo la partenza del prete chiamai i capi squadra e discussi con loro l'opportunità di allontanarci da Bazzano dove non eravamo più sicuri. Decidemmo di partire a mezzanotte e come sempre facemmo tutto in silenzio. E nessuno se ne accorse. Dovevamo raggiungere una casa di Lodrignano perché da quella
posizione potevamo controllare ogni cosa attorno a noi. Ovviamente portammo il prigioniero che volli ammanettato per evirare brutti scherzi.
Le sue proteste furono vivaci. Diceva che la convenzione di Ginevra vietava di mettere le manette agli ufficiali prigionieri. Si prese qualche spintone e non poté capire certe cose che qualcuno gli diceva in dialetto.
Era una notte calda e, prima di andare a dormire, disposi le guardie in diversi punti. Il prigioniero lo sistemammo alla meglio sotto un portico dove la paglia era abbondante e anch'io ne approfittai per riposare qualche ora. Appena sveglio, il mio pensiero tornò alle preoccupazioni. Dovevo convincere l'ufficiale a scrivere la lettera e non sapevo cosa escogitare. Ma un piccolo fatto mi venne in aiuto.
Mentre guardavo i suoi documenti fermai l'attenzione su una sua fotografia con la famiglia. Erano la moglie e due bambini. "Vieni con me" dissi a Franz ed entrai dall'ufficiale. Come ci vide si alzò in piedi e Franz lo salutò in tedesco. "Ha riposato bene?" gli chiese. "Non tanto" rispose lui e io gli feci dire che la mia visita era per sapere cosa lui avesse deciso.
"Non scriverò nessuna lettera" fu la sua risposta. "Non mi rimane che fucilarla - gli dissi io - mi spiace, lo devo fare tra poco". Poi tirai fuori la fotografia e gliela mostrai.
"È la pietà per i suoi famigliari che mi muove. Ci scriva sopra l'indirizzo e io le prometto che a guerra finita, se sarò ancora vivo, questa foto la manderò a sua moglie, così potranno venire a prendere la sua salma".
L'ufficiale prese la fotografia tra le mani. Era sconvolto e subito notai una intensa reazione. I pensieri tormentavano la sua mente. Era sconvolto. Non era più l'uomo di prima. In altre parole, capivo che desiderava vivere. Io provavo una grande pena.
Sapevo che la violenza morale cui lo avevo sottoposto era stata una crudeltà.(...). "Pensa lei che la guerra durerà ancora molto?" gli chiesi dopo un pò. Lui mi ascoltava ma pensava ad altro.
"Tutto il mondo vi è contro - dissi ancora - e lei ancora crede nella vittoria come quel pazzo di Hitler. Non sarebbe meglio che pensasse alla sua famiglia e alla sua vita?".
Franz puntualmente traduceva e tra me e l'ufficiale era entrata un'atmosfera tutta nuova. "Allora, capitano, è disposto a scrivere quella lettera?". Rimase in silenzio e per un attimo ci fu di nuovo tensione. Ma poi lui cambio atteggiamento. "Cosa devo scrivere?" disse. "Una cosa molto semplice" gli risposi. "Deve esprimere il desiderio di essere liberato tramire uno scambio di prigionieri".
Il problema era ormai aperto e, dopo diverse e intense trattative condotte principalmente da don Ferruccio Fava, il parroco di Provazzano, per conto del Vescovo, si arrivò all'accordo per lo scambio.
Diciannove nostri compagni, prigionieri dei tedeschi nelle carceri di Parma e di Reggio, ci sarebbero stati restituiti in cambio dell'ufficiale.
Il professor Mario Rinaldi.
Scrittore e storico della Resistenza, Mario Rinaldi è scomparso il 1° dicembre scorso, lasciando un profondo vuoto nella comunità e nella cultura. Nato a Neviano degli Arduini 77 anni fa, era stato per molti anni insegnante negli Istituti superiori di Reggio Emilia e di Parma e consigliere comunale a Neviano dove, per un mandato amministrativo, ha ricoperto anche l'incarico di vice sindaco. Oltre al saggio Dal Ventasso al Fuso (1988), ha scritto il romanzo Boogie Woogie (2002) sempre ambientato nel periodo della Resistenza. Nel 2008 ha curato, con Giuseppe Massari, l'antologia Vento del Nord. Aveva in fase di avanzata stesura un nuovo romanzo.
Sopra: Ubaldo Bertoli Scambio di prigionieri, l974.
Lupo (Cesare Cepelli di Cavriago)
Franz (cecoslovacco rimasto sconosciuto)
Aramis (Ennio Giansoldati)
Il brano è tratto da Dal Ventasso alFuso
diMario Rinaldi e Massimiliano Villa (William),
Battei, Parma, 1988.
"Era il 17 giugno. Dopo la partenza del prete chiamai i capi squadra e discussi con loro l'opportunità di allontanarci da Bazzano dove non eravamo più sicuri. Decidemmo di partire a mezzanotte e come sempre facemmo tutto in silenzio. E nessuno se ne accorse. Dovevamo raggiungere una casa di Lodrignano perché da quella posizione potevamo controllare ogni cosa attorno a noi. Ovviamente portammo il prigioniero che volli ammanettato per evirare brutti scherzi.".
LO SCAMBIO
Prima ancora che l'alba sorgesse venti partigiani partirono per il Torrione. Era il 27 Giugno. Li guidavano Franz e il Moro. Dovevano raggiungere i vari luoghi che avevamo scelto il giorno prima per metterci al sicuro.
Durante la notte altri compagni erano andati attorno al ponte di Vetto per controllare che nessuno entrasse da quella parte. Altri sei vennero invece invitati a prepararsi per lo scambio, lo prevedevano gli accordi, armati di sola pistola. E avrebbelo viaggiato con un camioncino. L'ora era ormai vicina e tutti eravamo molto tesi. Anche il prigionielo lo era.
Il prigioniero era molto cambiato negli ultimi giorni e, dopo che ebbe saputo dello scambio, tra noi era nata una certa distensione. Come medico aveva accettato di curare alcuni partigiani e anche qualche contadino aveva avuto bisogno di lui e il parroco gli aveva fatto più volte visita portandogli sempre qualcosa da bere o da mangiare. Insomma, era diventato un prigioniero particolare. Quella sera ero andato a trovarlo e tutto mi era nuovo, anche strano. Come mi vide si alzò in piedi. Sarà felice, capitano, questa è l'ultima sera di prigionia e quando ricorderà questa avventura sarà per lei come ricordare un brutto sogno.
La tensione era ormai sparita. "Voglio sperare che non dimenticherà come l'abbiamo trattato e che anche lei in futuro si comporterà verso i nostri compagni come noi ci siamo comportati con lei". "Farò del mio meglio" rispose. Era imbarazzato. Parlava lento ma in italiano. Fece una pausa poi continuò.
"Avrei un favore da chiederle - disse - gradirei mi fossero restituiti il cinturone e la pistola". Io mai avrei pensato a una cosa del genere e dopo qualche secondo gli risposi: "Di armi ne abbiamo bisogno noi. Penso però che non sia una pistola a far vincere o perdere una guerra. Credo che potrò restituirgliela. Prima però la dovrò scaricare".
E lui sorrise.
E così ci lasciammo per rivederci dopo poche ore. Mi accompagnò fin sulla porta e quella volta non scattò sull'attenti. Alle cinque ero già sveglio e alle sei e dieci partimmo per il Torrione. Davanti viaggiava il nostro camioncino con sopra i sei dell'accordo. Dietro di loro, a una trentina di metri, su una Lancia scoperta, era un Aprilia requisita al dottor Marconi di Castelnuovo, seguivo io col prigioniero, seduti dietro. Lupo era alla guida. Arrivammo al Torrione che i tedeschi c'erano già. Fermo sulla destra c'era il loro camion. Sei soldati e un ufficiale erano già scesi e si erano disposti in fila davanti al camion. Da una parte c'era la nostra staffetta con la moto. I sei partigiani scesero a loro volta e si schierarono
dall'altra parte della strada.
L'ufficiale tedesco scattò sull'attenti e salutò militarmente. Io e il prigioniero ci alzammo in piedi e ricambiammo il saluto.
Scesi e mi avviai verso l'ufficiale che mi venne incontro. Io gli dissi il mio nome e lui il suo. Sono il colonnello Kalkoff, mi disse. Poi si voltò verso il prigioniero che mi era di fianco e gli strinse a lungo la mano. Si dissero diverse cose che io non capivo.
"Tutto è pronto" mi disse il prigioniero e Kalkoff tirò fuori dalla borsa alcuni fogli. Me ne consegnò uno.
Era l'elenco dei nostri compagni.
"Ne mancano sei - disse - non è stato possibile trovare tutti quelli che ci avete chiesto. O li abbiamo rilasciati o sono stati trasferiti in Germania. Al loro posto ne abbiamo aggiunti degli altri. Sono una donna di Reggio, un prigioniero di Parma, due di Savona e due militari di Milano". La donna di Reggio era la Lina, l'avevano arrestata in gennaio, la conoscevo da molto rempo, e dal racconto che mi fece dopo seppi come si erano svolti i fatti.
Alle undici della sera prima i nazisti erano andati a prelevarla al carcere di San Tommaso, a Reggio, senza dirle niente. Per lei fu un momento terribile. In piena notte furono prelevati, sempre a Reggio, altri quattro compagni. Anche a quelli non fu data alcuna spiegazione. Li portarono tutti a Parma, in Cittadella. Là c'erano gli altri, anche loro ignari di tutto. Alle tre vennero tutti caricati sul camion e portati a Traversetolo dove, dopo una breve sosta in paese, salì un prete (era don Pasini).
La sua presenza pareva la conferma dell'atroce dubbio che tutti avevano perché un prigioniero appena vide il prete disse ad aka voce "il prete è stato chiamato per assisterci al momento della fucilazione".
Nessuno di noi parlò e il silenzio era di tomba. Eravamo tutti impietriti. Ora al Torrione quei prigionieri dubitavano anche dei propri occhi e non capivano che davanti a loro c'eravamo noi. Temevano che tutto fosse una farsa. Li invitammo a scendere. Con l'elenco in mano io li chiamavo uno alla volta. Mentre scendevano, quattro di loro si reggevano a malapena in piedi. Chiesi cosa avessero. Uno di loro piangeva e disse di essere stato torturato. Si tolse la camicia e mi mostrò le terribili piaghe che gli coprivano la schiena. Anche i piedi erano pieni di piaghe. Un altro mi chiamò in disparte e mi fece vedere i testicoli. Erano impressionanti. Erano gonfi e di colore nero. Mi disse che glieli avevano forati con degli spilloni. Chiesi a quei giovani chi era stato a torturarli.
"Quelli della Milizia" mi avevano risposto. Ebbi una reazione. Mi voltai di scatto verso Kalkoff. "Lei non mi restituisce degli uomini ma dei moribondi - gli dissi - si vergogni".
"Non siamo stati noi, lo chieda a loro" mi rispose. Ci fu uno scambio violento di parole e la situazione s'era fatta tesa. A Kalkoff era sfuggito il senso delle mie parole e Buk gliele aveva tradotte. I due si parlarono brevemente. Io non capivo. Poi Buk mi si rivolse: "Comprendiamo la vostra situazione. Noi possiamo rimediare. Questi due feriti li ricoveriamo a Traversetolo e io vi do la mia parola che a curarli sarò io personalmente. Poi li rilasceremo".
Kalkoff consentiva coi cenni del capo. I due sventurati erano d'accordo e salirono di nuovo sul camion. L'operazione era a quel punto terminata. Ci scambiammo i saluti e Buk mi venne vicino. "Tenga - mi disse - e si ricordi di me". E mi allungò il suo orologio da polso. Era un cronometro d'oro.
Non seppi cosa dire. Ci guardammo soltanto. I due gruppi di sei uomini stavano ancora uno di fronte all'altro. I nazisti in uniformi eleganti, ben vestiti, uguali in tutta Europa. I miei uomini erano un'altra cosa. Chi aveva la giacca, chi non l'aveva, c'era chi aveva i sandali e chi gli scarponi. C'era molta differenza.
Quando il loro camion era ormai lontano i compagni sparsi tutt'attorno uscirono dai nascondigli e ci raggiunsero correndo. Fu un abbraccio generale. C'era chi piangeva e chi no ma la commozione era di tutti.
Gruppo di partigiani del Don Pasquino della 47° Brigata Garibaldi.
Da sinistra: Toti (Alberto Brunazzi) commìssario del battaglione. A seguire: Maris (William Bronzoni), Falco (Giovanni Franzoni), Lampo (Walter Ferrari), Terrore (Antonio Luppi) e altri..
"Dovevo convincere l'ufficiale a scrivere la lettera e non sapevo cosa escogitare. Ma un piccolo fatto mi venne in aiuto.
Mentre guardavo i suoi documenti fermai l'attenzione su una sua fotografia con la famiglia. Erano la moglie e due bambini."
"L'ufficiale prese la fotografia tra le mani. Era sconvolto e subito notai una intensa reazione. I pensieri tormentavano la sua mente."
"Nel 1960 l'ex ufficiale tedesco Buck, come turista e come medico, che negli ultimi giorni dell'occupazione tedesca salvò diversi prigionieri "della Resistenza" destinati a morte sicura, tornò a Parma. Con lui c'era la moglie e volle incontrare William. I due, assieme a Tonino Chiari, uno dei salvati nei giorni della Liberazione che lo ospitò a casa sua, salirono assieme a Lodrignano dove Buck, commosso, poté rivedere il posto della sua prigionia, unche il prete e qualche abitante del posto. Il cronometro d'oro che Buck regalò a William il mattino dello scambio si trova oggi nel piccolo museo di San Polo d'Enza nei sotterranei del palazzo municipale.