GLI ARTICOLI SU MONTEPIANO
Anno 5 - Numero 57
MAGGIO-GIUGNO 1944
IL "DON PASQUINO" DISARMA LE CASERME
DI RAMISETO, SELVANIZZA E NEVIANO
I tre fatti nel racconto di Massimiliano Villa (William)
di Mario Rinaldi
In alto: Ubaldo Bertoli, Bande di Partigiani.
Ramiseto: 27 maggio 1944
(...) Ero convinto che di armi ne avrei trovate. (...) La sera dopo arrivai per la prima volta a Palanzano. Andai nella trattoria e da alcune famiglie. Dovevo prelevare viveri e trovai molta disponibilità perchè Bogliani (Ennio Boliani) aveva fatto strada. Erano trascorsi due giorni dal nostro arrivo a Zibana e era ormai necessario cambiare zorna. Ci trasferimmo a Pratopiano poi, nella stessa notte, andammo a Caneto e questi continui spostamenti favorivano i nostri incontri con la popolazione. Dovevamo farci conoscere. A Pratopiano ci riposammo un giorno e urna notte e l'altra sera ancora ci trasferimmo a Vaestano. Dovevo ristabilire i contatti col Cornando reggiano. Era da tempo che non ci si vedeva.
Descrissi in un rapporto tutte le operazioni che avevamo fatto e aggiunsi la raccomandazione di farmi sapere al più presto quali erano le possibilità di attaccare la caserma di Ramiseto.
Mandai due compagni da Eros (Didimo Ferrari di Campegine) e il giorno dopo arrivò la risposta. Avrei dovuto scendere nell'Enza all'altezza di Vairo e lì attendere un compagno del Comando reggiano. Si chiamava Sintoni (Fausto Pataccini di Villa Rivalta) e con lui mi sarei accordato. Toccava a me comunicare a Eros il giorno e l'ora dell'appuntamento. Era necessario il massimo segreto. Eros mi mandava anche a dire che da Reggio lo avevano informato di un probabile rastrellamento nazista e la radio continuava a dire che saremmo stati sterminati. Quelle notizie mi mettevano in relazione con quello che stava accadendo da qualche giorno. Mi avevano infatti informato che due giorni prima diverse truppe tedesche e fasciste erano arrivate fino a Monchio. Altre erano arrivate a Ramiseto e sulla Sparavalle, nella parte reggiana. Per fortuna non ci fu alcun atto contro la popolazione. Passata una settimana arrivò a Vaestano una staffetta di Eros. Era pronto l'incontro con Sintoni e in compagnia di Lupo (Cesare Cepelli di Cavriago) scesi sull'Enza. Era la prima volta che vedevo Sintoni e subito parlammo di come avremmo attaccato Ramiseto. Il problema era di valutare le nostre possibilità di successo perché quella caserma era un fortino. Spiegai a Sintoni il piano che avevo studiato assieme a Baisi e gli illustrai gli stratagemmi che avevamo pensato. Sintoni non ebbe obiezioni. Non ci restava che passare all'azione e ci salutammo con un arrivederci. I1 giorno dopo mi misi in marcia con tutto il Don Pasquino. Dovevamo raggiungere una casa che avevo notato durante i primi tempi della mia presenza in montagna quando ancora c'era la neve. Era a una mezz'ora da Ramiseto. Appena passata l'Enza cominciò a piovere e alle due di notte arrivammo in quella casa. Per prima cosa la feci circondare e ordinai di fermare chiunque volesse uscire. Bussai alla porta e un uomo si affacciò. "Non abbia paura - gli dissi - siamo partigiani e abbiamo bisogno". In casa c'erano un giovane, una ragazza e un uomo anziano. Avevano paura. "Veniamo da lontano e abbiamo bisogno di fermarci questa notte e tutta la giornata di domani. Dobbiamo riposarci e nessuno, oltre a voi, deve sapere che siamo in questa casa. Per nessun motivo dovrete allontanarvi e chiunque da questo momento si presenterà da fuori io lo dovrò trattenere questione di sicurezza". Ci sistemammo in due stanze al piano di sopra da dove col binocolo si poteva vedere la strada di Ramiseto. La mattina passò tranquilla. Nel pomeriggio invece arrivò una parente del proprietario che entrò disinvolta salutando allegramente. Avendo notata la mia presenza chiese chi fossi. L'avvicinai e le disse che l'avrei trattenuta fino al momento della nostra partenza. Più tardi arrivò anche il marito che senza fare storie accettò l'imprevisto. Cenammo tutti assieme poi si doveva partire perchè Sintoni ci aspettava a Ramiseto. E all'ora fissara eravamo all'appuntamento. Più tardi arrivarono anche Baisi (Attilio Baisi di Ramiseto) e Prospero Bassi (di Ramiseto) con le ultime norizie. Tutto era tranquillo e così cominciammo. Senza difficoltà ci avvicinammo alla caserma e la circondammo. Gli uomini si piazzarono agli angoli delle case. Con nove compagni rni portai all'abitazione di una famiglia che era nello stesso palazzo dove c'era la caserma. Uno dei miei uomini bussò con forza e un uomo s'affacciò. "Sono io" disse il partigiano che era di Ramiseto. "C'è un vostro parente che sta male. Ho delle notizie da darvi". Il padrone di casa aprì la porta. Gli balzammo addosso e senza perder tempo entrarnmo in casa. Eravamo in cinque. Cercai di scusarmi. Era necessario calmare lo spavento. Non potevo però perdermi in conversazioni. "Dobbiamo occupare la stanza che confina con la caserma" dissi. "Dovete sgomberarla subito. Se non s'arrenderanno abbatteremo la parete. Voi dovete stare calmi". Uno degli uomini aveva un grosso martello e della dinamite . Gli dissi di stare pronto. Sulla strada c'era Sintoni che aspettava. Franz aveva tagliato i fili del telefono. I1 maresciallo col quale avevo giocato a scopa tempo addietro, era febbraio quando ero salito in montagna fingendomi un convalescente ammalato di polmoni, abitava nella casa di Baisi e non fu un ploblema sorprenderlo a letto. Quando mi vide stralunò. Mi guardava incredulo. Gli ordinai di vestirsi e di venire con noi. "Adesso deve entrare in caserma e dire ai suoi uomini di arrendersi. Sappia che siete circondati. Abbiamo tagliato i fili del telefono e le dò cinque minuti". Senza dire una parola il maresciallo andò in caserma e un milite ignaro di tutto lo fece entrare. Aspettammo cinque minuti e ne facemmo passare altri cinque ma dalla caserma nessun segnale. Passai allora voce ai compagni di tenersi pronti e gridai al maresciallo di dare una risposta. Il silenzio continuava e a quel punto dovevamo agire. Sparammo alcune fucilate contro le finestre e l'eco dilatò il frastuono. A quel punto corsi nell'appartamenro dove c'erano i compagni con la dinamite e ordinai di cominciare a battere il martello. Un po' di rumore ci avrebbe aiutati. Poi mi affacciai alla finestra e cominciai a gridare. "Maresciallo stiamo minando la caserma". Dalla caserma cominciarono a sparare. Il maresciallo aveva deciso così. A noi non restava che reagire,
sparanmo tutti assieme e lanciarnmo alcune bombe. La sparatoria fu intensa e quando cessò tornai a gridare al maresciallo di arrendersi. Finalmente la porta si aprì e sulla soglia comparve il maresciallo che con la luce alle spalle si stagliava contro il buio. "Non sparare, ci arrendiamo" disse. Una squadra entrò nella caserma. L'ordine era di prendere le armi e di non toccare le cose
dei militi e dei carabinieri. Di militi ce n'erano diciassette che subito radunammo fuori. "Noi volevamo solo le armi - dissi - adesso siete liberi. Se qualcuno di voi vuol venire con noi sarà il benvenuto. Quello che non dovrete fare sarà di rimanere a Ramiseto". Al maresciallo promisi una partita scopa in tempi migliori. Ora, per finire l'azione, dovevamo prelevare i soldi dell'uflìcio postale il cui titolare era lo stesso Bassi. L'operazione l'avevamo concordata assieme e lui, per non destare sospetti, non doveva essere a casa, quella sera. C'erano settemila lire che prendemmo e a quel punto avevamo finito. La gente di Ramiseto aveva seguito tutto da dietro le finestre e dopo un po' aveva cominciato a uscire di casa per venirci a vedere. Qualcuno portò anche da bere. Fino a un'ora prima c'era il finimondo, potevano esserci dei morti, e improvvisamente tutto sembrava una sagra. A quell'ora però si doveva partire. Il bottino lo avevamo diviso e partimmo per Selvanizza che erano le tre.
SELVANIZZA: 2 GIUGNO 1 944
"In che tempi viviamo". A dirlo era la moglie del contadino. Eravamo arrivati a casa sua senza farci notare e in quella casa c'eravamo da appena un paio d'ore. Tutti dormivano. Alle chetichella ci eravamo sistemati sotto il portico e nel fienile. I proprietari ci videro quando vennero a governare la stalla e la donna si mostrò subito ospitale. "Fra poco mungeremo - mi disse - e vi daremo del latte". Questo umore però mutò improwisamente quando la donna guardò il marito. "La devo avvertire che fra poco verrà un carabiniere - disse - che ogni tre giorni viene a prendere le uova. È di Selavanizza". Io ero sorpreso perché non mi risultava che a Selvanizza ci fossero i carabinieri. "Sono in cinque" disse il marito. Io pensavo alla fabbrica del tannino, al frumento e all'ufficio postale. Dov'erano i carabinieri? "Sono arrivati dopo che i partigiani hanno
sabotato la fabbrica del tannino e devono fare la guardia anche alla centrale". Io mi guardavo attorno e pensavo che quel carabiniere dovevo catturarlo. Svegliai Gallo (Renato Feltrami di Reggio), lo informai e c'erano anche gli altri. Si doveva decidere ma i pareri erano diversi.
C'era chi suggeriva di ritirarci nel bosco e chi di stare nascosti dov'eravamo. Lupo proponeva di verificare se era vero che a Selvanizza c'erano i carabinieri. Anche Franz (cecoslovacco rimasto sconosciuto) suggeriva di andare a vedere. Il giorno era ormai pieno, erano le sei, e Lupo partì con una zappa sulla spalla per sembrare un contadino. Dopo due ore era di ritorno.Tutto confermato: "A Selvanizza ci sono i carabinieri". Rientrai in casa e parlai col contadino. "Noi abbiamo bisogno di armi" gli dissi. "Disarmeremo il carabiniere delle uova. Io e un altro ci metteremo dietro a quella porta e quando il carabiniere arriverà lo farete entrare come sempre avete fatto. Dovrete essere normali e al tempo giusto noi faremo la nostra parte. Vi assicuro che non gli faremo del male". "Che Dio ce la mandi buona" rispose la moglie. E il carabiniere non si fece attendere. La donna era andata fuori a aspettarlo e lo vide che arrivava. Era turbata. "Cerchi di stare calma e vedrà che tutto andrà. bene" le dissi. Ignaro di quanto stava per accadergli il carabiniere arrivò sulla porta e la donna riusciva a essere tranquilla. Passato qualche minuto io entrai nella stanza. "Alza le mani" gli gridai e le uova che teneva in mano gli caddero per terra. Gli tolsi il moschetto e la pistola e gli spiegai chi eravamo. Lui non credeva ai suoi occhi.
"Sono partigiani" gli disse la moglie del contadino. "Non abbia paura". Il carabiniere ormai rinfrancato diceva che lui non era fascista e che avrebbe anche collaborato. "Posso offrirle l'occasione" gli dissi. "Quale?" chiese. "Aiutarmi a disarmare i suoi colleghi" gli risposi. "È molto semplice. Rifaremo assieme la strada del ritorno. Dovremo sembrare degli amici che si sono ritrovati. Al resto penseremo dopo". Chiamai Franz e Lupo e tutti assieme partimmo col carabiniere alla mia destra e Franz sulla sinistra. Più indietro seguivano gli altri. Quando ormai eravamo nei pressi della caserma le cose non erano come le avevamo pensate. Davanti al cancello, infatti c'era il brigadiere. "Si limiti a salurare com'è solito fare" dissi al carabiniere che eraimbarazzato. Io e Franz ci eravamo intesi con un'occhiata e il brigadiere dal cancello ci guardava con sospetto ma ormai eravamo a pochi metri. A quel punto Franz scattò come solo lui sapeva fare e con due balzi fu addosso al brigadiere con la pistola sotto la gola. In quel momento il brigadiere aveva capito chi eravamo. Entrammo in caserma. Seduti a un tavolo c'erano altri tre carabinieri che non ebbero reazione. Solo lo stupore si vedeva. C'erano cinque moschetti, un mitra, quattro rivoltelle, diverse bombe a mano e molte munizioni. Il brigadiere era ironico. "Adesso sarete contenti" disse. Vi fu una serie di battute che erano il rilassamento dopo la tensione. Passarono solo cinque minuti e noi ci rimettemmo in cammino per tornare al Distaccamento. Avevamo altre armi.
NEVIANO: 10 GIUGNO 1944
(...) Nella notte arrivammo a Sarignana e occupammo il palazzo Baroni, un grande edificio del '600, tutto in pietra, pieno di stanze e di saloni. La sua posizione era ideale perché dai suoi novecento metri si potevano dominare Scurano e giù giù i campi fino ai boschi dell'Enza. Alle spalle avevamo il monte Fuso e tutta la boscaglia che gli gira attorno. In caso di necessità avremmo potuto sparire facilmente. Riposammo fino al mattino. Al mattino, poi, con la luce del giorno, perlustrammo la strada che scende all'Ariolla, quella che sale al Fuso, e i diversi boschi che circondano Sarignana. Misi sentinelle ovunque. (...) Il giorno dopo quel Tonino (Tonino Fattori) che avevo incontrato il giorno prima tornò a Sarignana con i dati della caserma e quelli della casa del fascio. Erano due piantine. E su quelle decidemmo l'attacco. Ordinai a Lupo e a Mago (Luigi Canossini di Bibbiano) di trovare un mezzo per andare a Rigoso. Partirono subito. Mandavo un messaggio al Moro (Silvio Cremonesini di Langhirano) per chiedergli di partecipare all'attacco col suo distaccamento, lo Zinelli. "Se sei d'accordo trovati alle ventitrè di domani notte al bivio Bonaparte, sulla strada
tra Lupazzano e Sasso. Ti consiglio di requisire la corriera della Sorit a Monchio. Con la corriera andremo tutti a Neviano. A voce ti spiegherò i vari dettagli dell'operazione". La risposta fu di pieno accordo. Poco dopo l'imbrunire del giorno dopo, era il 10 giugno, partimmo a piedi da Sarignana e dopo due ore eravamo al bivio di casa Bonaparte. Passati venti minuti, noi ci eravamo nascosti nella boscaglia, arrivò la corriera della Sorit con tutto lo Zinelli e poco prima di mezzanotte eravamo a Neviano. Zitti zitti noi del don Pasquino accerchiammo la caserma e quelli dello Zinelli la casa del fascio, poco distanti l'una dall'altra, e quando tutti fummo sistemati urlammo ai carabinieri e al segretario del fascio di arrendersi. La prima reazione fu il silenzio. Poi ancora la mia voce e quella del Moro tornarono a fendere la notte. "Abbiamo i mortai e se non vi arrendete spareremo su di voi". Per far credere di avere un mortaio tiravamo avanti e indietro un carro agricolo preso in un'aia vicino al Municipio. A quel punto da una finestra della caserma partirono due colpi, solo due, e dalla casa del fascio una raffia di mitra. Poi tornò il silenzio e la mia voce e quella del Moro ripresero a intimare nel buio. "Vi diamo ancora cinque minuti" urlavo, e alla caserma si aprì il portone. "Ci arrendiamo" disse il brigadiere. Ora che la caserma si era arresa a preoccuparmi era la casa del fascio perché dalla sua parte non si sentiva più alcun rumore. Il brigadiere comunque uscì e noi, in cinque, gli andammo incontro. "Vogliamo le armi. State tranquilli che non vi succede niente". Di armi ce n'erano parecchie . Era la prima volta che ci trovavamo a soli trenta chilometri da Parma e anche da Reggio e così vicini a Langhirano e a Traversetolo. Sarebbe bastata una telefonata. Eravamo molto preoccupati. Mi raggiunse il Moro. "Non riusciamo a trovare il segretario del fascio" mi disse. "O è scappato o è in un rifugio segreto". Il segretario del fascio era un veterinario che ci era stato segnalato perché dopo l'otto settembre si era particolarmente accanito contro i giovani renitenti alla leva. Il Moro mi disse che il portone della casa del fascio era solo accostato. Evidentemente lo aveva aperto il segretario per uscire e per fuggire protetto dal buio. In casa c'era solo la moglie. "Vieni subito perché quella donna è una belva" mi disse. Si sentiva un vociare concitato e quando entrai vidi una cosa da non credere. Un gruppo di partigiani era da una parte del tavolo e dall'altra c'era lei che li insultava urlando frasi forsennate. Pareva avesse un frusta in mano e appena vide me e il Moro ci riservò lo stesso trattamento. "Si calmi" le disse il Moro ma lei gli si avventò contro per dargli uno schiaffo. La situazione stava per saltare e quello che ci voleva era la calma. "Signora, nessuno le ha ancora fatto del male" le dissi. "Lei deve calmarsi e deve smerrerla di insultarci. Se non la smette le requisisco tutta la roba che ha in casa e la dò ai poveri del paese". Ma lei ci insultava più forte di prima. "Le giuro che se continua le distruggo la casa" le dissi ancora. La minaccia ebbe l'effetto contrario perché, se non fossi stato svelto a scansarmi, mi sarei preso un pugno contro il naso. Ordinai allora di perquisire l'appartamento e di prendere tutte le coperte e le lenzuola che c'erano nella casa. Si doveva anche vedere se in qualche ripostiglio ci fosse nascosto il segretario del Fascio. I compagni a quel punto ruppero sedie e mobili e lanciarono uova contro il muro. Desideravano tutti punire quella donna. Del segretario nessuna traccia ma nascosti sotto il letto c'erano tre sacchi di sigarette che portammo con noi assieme alle armi requisite. La donna a quel punto urlava un po' meno. Forse s'era stancata. Erano le tre passate quando ripartimmo assieme ai compagni dello Zinelli. AI bivio della Valtoccana, però, arrivammo in ritardo perché era successo che la corriera, troppo carica, non riusciva a salire i tornanti di Lupazzano. E noi del Don Pasquino dovemmo scendere tutti per spingerla fino al piano della Travilla. Al bivio poi ci separammo. Lo Zinelli tornò a Rigoso, con la corriera, e noi andammo a Ruzzano, a piedi, dove ci sistemammo in una casa isolata e dove potemmo riposare per tutto il giorno dopo.
Mario Rinaldi
Il professor Mario Rinaldi.
"Aspettammo cinque minuti e ne facemmo passare altri cinque ma dalla caserma nessun segnale. Passai allora voce ai compagni di tenersi pronti e gridai al maresciallo di dare una risposta. Il silenzio continuava e a quel punto dovevamo agire. Sparammo alcune fucilate contro le finestre e l'eco dilatò il frastuono...".
"A quel punto Franz scattò come solo lui sapeva fare e con due balzi fu addosso al brigadiere con la pistola sotto la gola. In quel momento il brigadiere aveva capito chi eravamo. Entrammo in caserma. Seduti a un tavolo c'erano altri tre carabinieri che non ebbero reazione. Solo lo stupore si vedeva...".