GLI ARTICOLI SU MONTEPIANO
Anno 4 - Numero 42
ALLA RISCOPERTA DELL’ANTICO
''MULINO DELLE LATTE" DI SCURANO
A raccontarne la storia è Guglielmo Govi, l'ultimo mugnaio
di Maria Chiara Ugolotti
Verso la fine dell'800 e fino alla metà dello scorso secolo, più di cento mulini operavano attivamente lungo il medio e alto corso delle Valli dell'Enza e del Termina. L’attività molitoria era sicuramente interdipendente con l'agricoltura e il mercato dei prodotti agricoli alimentari.
Ogni frazione, e spesso ogni piccolo borgo, disponeva almeno di un impianto. I contadini portavano personalmente al mulino i cereali o le castagne da macinare e vi si trattenevano controllando attentamente le operazioni del mugnaio e riportando, infine, il macinato alla loro abitazione.
L’acqua di preziosi torrentelli o rivoli naturali, spesso regimata da un sofisticato sistema di canalizzazione, costituiva la forza motrice di questa diffusa attività produttiva a cui corrispondeva
un'altrettanto capillare rete distributiva.
Visitando il Mulino delle Latte, uno degli esemplari meglio conservati nella zona di Neviano degli Arduini, di proprietà della famiglia Mambriani, e parlando con l'ultimo mugnaio che vi ha lavorato, si sono potuti recuperare alcuni dati e informazioni storico-tecniche, legati a quel ricchissimo patrimonio rappresentato dal sapere di chi praticava questo affascinante mestiere.
L’esperienza di ogni mugnaio, infatti, abbraccia una vasta gamma di operazioni talvolta semplici, ma anche estremamente complesse o faticose, racchiudendo in sé l'embrione di una tecnologia che la scienza ingegneristica ha poi trasformato con ben altre strumentazioni concettuali e pratiche.
Ubicazione: da Scurano, seguendo la strada provinciale per Vetto d'Enza, sulla destra all'interno di un podere isolato, in zona agricola. Non visibile dalla strada. Si racconta che il nome del "podere Le Latte" derivi dal termine dialettale "làti" con cui si denominavano le frane, presenti in gran quantità nella zona a causa della natura argillosa del terreno e dell'eccedenza di sorgenti d'acqua.
Edificio: 1808, data siglata su un architrave del prospetto nord, a cui si può far risalire la costruzione. Gli informatori riportano una suddivisione cronologica del fabbricato, tramandata oralmente dalle famiglie che lo hanno abitato precedentemente: la parte più antica è la mediana, quella successiva è più a valle e quella più recente è a monte.
Informatori: Guglielmo Govi, classe 1942, e Romana Govi, classe 1939, originari di Vetto. Figli di Ampelio Govi e Domenica Capacchi, mugnai dal 1902 al 1933 del Mulino Stabbio (ora distrutto) a Gottano di Vetto e dal 1933 al 1961 del Mulino Ioppi nella medesima località. Nel 1961 i Govi si trasferirono al Mulino Le Latte come mezzadri del podere; in quegli anni mugnaio era ancora Giuseppe Calori, che cedette l'attività, non abbastanza redditizia per poter vivere solo di essa, ai Govi nel 1966. Sino al 1972 questi ultimi presero in gestione anche il mulino, gestito in gran parte dalla moglie di Guglielmo che provvedeva alla macinatura mentre il marito si occupava del lavoro nei campi del podere. Fu proprio il '72 l'anno in cui terminarono a loro volta il mestiere per motivi analoghi.
L’organismo architettonico è alquanto semplice: sviluppato su tre livelli, presenta altrettanti distinti corpi di fabbrica, in muratura di pietrame locale, congiunti scalarmente seguendo il pendio. L’interno è articolato in locali di lavorazione, di abitazione e di servizi rustici annessi (forno dislocato a valle del mulino): la residenza occupa il complesso mediano. Nel fabbricato sono presenti anche un piccolo porcile per 3 maiali, una piccola stalla e un pollaio.
La struttura interna è costituita da travi lignee a vista, divisori a graticci (in legno), pavimenti in pietra e legno, terra battuta o in cotto. Manca il rivestimento ad intonaco esterno di cui si nota soltanto qualche traccia.
L’edificio è concluso verticalmente da un coperto a semplice orditura con due falde a lastre di pietra o in coppi. Non vi sono tracce di elementi decorativi.
L’impianto tecnologico che consente l'attuazione dell'intero processo produttivo si sviluppa sia esternamente che internamente all'edificio. Nel primo caso è composto da tre ruote verticali (la seconda è oggi distrutta), in dialetto “i rudòn”, in legno e in lamiera metallica.
Il legno, di provenienza locale, veniva stagionato sott'acqua per evitare il degrado e la marcescenza. Ognuna di esse è collocata in corrispondenza di ciascun corpo di fabbrica e tutte risultano alloggiate a fianco del prospetto meridionale. Questa precisa disposizione permette il massimo sfruttamento dell'energia potenziale di caduta dell'acqua, dovuta al dislivello altimetrico.
È evidente poi come ciò conferisca all'organismo architettonico una suggestiva impronta formale e strutturale, in cui 1a bellezza deriva sicuramente dalla particolare aderenza alla funzione.
Una sorgente che nasce nello stesso podere poco sopra, deviata verso il mulino da un apposito canale di derivazione scavato nella terra, oggi semi-distrutto, le aziona contemporaneamente, ed esistevano sistemi tecnici per poter fermare (paratoie), deviare (canaletta inclinata chiamata 'spérla') e regolare la caduta d'acqua anche su una sola delle tre ruote. La prima, quella più alta, serviva a macinare il frumento (la qualità più usata era il "mentana", ritenuto uno dei migliori per la produzione di pasta e pane), la seconda, quella mediana, il mais e la terza, quella più bassa, le miscele per i mangimi per il bestiame. Prima del '55, anno in cui venne costruito l'acquedotto di Bazzano, che si allaccia a quella sorgente, l'acqua che attraversava il mulino era talmente copiosa da permettere la macinatura giorno e notte, 24 ore consecutive, durante le quali si producevano, l'informatore racconta, sino a 10 quintali di farine.
Nonostante la sorgente fosse così abbondante, l'acqua non risultava mai eccessiva; il flusso scorreva in maniera sempre regolare e l'informatore non ricorda alcun episodio di piene o getti troppo potenti, quindi dannosi.
Dopo quella data, si sopperisce alla maggior scarsità d'acqua creando una piccola vasca di raccolta acque, chiamata "butàsh", più alto rispetto alla quota altimetrica del mulino, in modo da garantire continuità e velocità di caduta d'acqua, sempre incanalata per mezzo di "docce", sulle ruote.
Esso consentiva un'autonomia lavorativa di circa 3 ore consecutive e, una volta esaurito tutto il liquido nel bacino, occorreva aspettare che la sorgente lo riempisse di nuovo.
Internamente, invece, la tecnologia, installata all'interno del locale di lavorazione, risulta al servizio del processo produttivo vero e proprio: la macinazione della materia prima. Nel Mulino delle Latte ritroviamo ancora, in tutti e tre gli edifici, i principali strumenti lignei: la "sgorbia” o "tramògia”, ovvero il recipiente in legno in cui, con un grosso contenitore in legno, la "minèla”, veniva versato il grano già vagliato.
Data la particolare forma, la minèla veniva usata talvolta anche in casa, in funzione di "cùna” (culla) o trasformata in carrozzina. La caduta del grano sulla macina in pietra era regolata da un bastoncino ligneo collegato con un'estremità al piano della macina e con l'altra alla tramoggia: le vibrazioni trasmesse producevano una caduta costante delle granaglie.
A differenza della ruota orizzontale, chiamata in dialetto "pirlòn”, il meccanismo della ruota verticale è composto da particolari ingranaggi di moltiplica, tra cui lo "scudo", il "lubecchio" e "al ruchèt", che consentivano di ottenere, per ogni giro del rudòn, molteplici giri della macina: ciò garantiva un notevole aumento della capacità produttiva.
Uno scorcio del "podere Le Latte" con il mulino in primo piano.
Gli informatori riferiscono che l'attività principale si svolgeva in estate, stagione in cui era necessario fare la scorta di farina per l'inverno e in cui i contadini potevano accedere al mulino con quantità di grano ingenti, trasportare dai carri trainati da muli o vacche. In inverno si lavorava solo in caso di necessità e le quantità di grano da macinare erano esigue poiché, viste le abbondanti nevicate, si poteva arrivare al mulino soltanto a piedi, trasportando un massimo di 20 Kg per viaggio negli appositi "saclòt" o "sachèli", a seconda della quantità.
A differenza della ruota orizzontale, chiamata in dialetto "pirlòn”, il meccanismo della ruota verticale è composto da particolari ingranaggi di moltiplica, tra cui lo "scudo", il "lubecchio" e "al ruchèt", che consentivano di ottenere, per ogni giro del rudòn, molteplici giri della macina: ciò garantiva un notevole aumento della capacità produttiva.
Gli informatori riferiscono che l'attività principale si svolgeva in estate, stagione in cui era necessario fare la scorta di farina per l'inverno e in cui i contadini potevano accedere al mulino con quantità di grano ingenti, trasportare dai carri trainati da muli o vacche. In inverno si lavorava solo in caso di necessità e le quantità di grano da macinare erano esigue poiché, viste le abbondanti nevicate, si poteva arrivare al mulino soltanto a piedi, trasportando un massimo di 20 Kg per viaggio negli appositi "saclòt" o "sachèli", a seconda della quantità.
Inoltre, circa ogni dieci anni, nella faccia interna delle due macine venivano ripristinate le scanalature, le "spirali", incidendo con uno scalpellino i solchi consumati che servivano a far scendere la farina solo in una direzione per poterla accumulare nel vano sotto la macina, il "paramento". Si racconta che nel Mulino delle Latte la macina mediana lavorasse con una catena, ma i Govi non sanno riportare il funzionamento perché quando, nel '61, si trasferirono all'opificio quel meccanismo non era più funzionante.
Negli anni '50 si innesca un rapido processo di rivoluzione tecnologica che porta allo sviluppo di tecniche più avanzate: il mulino ad acqua viene pian piano soppiantato dal mulino a cilindro con turbine e motori a scoppio - i primi esempi si possono trovare a Vetto, Castelnovo Monti e Scurano - e quella dimensione semplice e genuina, ma allo stesso tempo tanto affascinante, del lavoro manuale a conduzione familiare, lascia il posto all'avvento dei grossi macchinari... all'avvento dell'industria.
I segni del tempo sono fin troppo evidenti su questo opificio che ha rivestito una grande importanza economico-sociale per Scurano e dintorni.
Sopra: particolare del lubecchio e del ruchèt.
A lato: Impianto interno del mulino.
Bibliografia: I mulini ad acqua della Valle dell'Enza, a cura di F. Foresti, W. Baricchi, M. Tozzi Fontana, Grafis Edizioni, Istituto per i Beni culturali della Regione Emilia-Romagna.